Andare in pensione a 63 anni? Le ipotesi sul tavolo

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Con Quota 102 in dirittura di arrivo, l’Inps sta pensando a nuove modalità per l’accesso alla pensione a partire dai 63 anni di età con una penalizzazione soltanto sulla quota retributiva. Il costo per lo Stato non dovrebbe superare i 5 miliardi di euro.

Il 31 dicembre 2022 sarà l’ultimo giorno di Quota 102, il sistema che permette a chi ha 64 anni e 38 anni di contributi di uscire dal mondo del lavoro e godersi la pensione.

A partire dal 2023 i requisiti saranno quelli della odiatissima legge Fornero, ossia 67 anni di età con 20 anni di contributi oppure la pensione anticipata dopo 42 anni e 10 mesi di contributi.

Il presidente dell’Inps Pasquale Tridico sta quindi pensando a diverse idee da presentare al governo e ai sindacati, che non si riuniscono dallo scorso mese di febbraio. I soldi si sprecano per altro ma Tridico insiste che il sistema pensionistico non regge, e lo sostiene da mesi, e senza considerare la carneficina dei pensionati del Covid, va in cerca di soluzioni. Il sito del quotidiano Repubblica sottolinea che il premier Mario Draghi non pone veti alla riforma delle pensioni a patto che siano sopportabili per le casse pubbliche. Nel 2021 la spesa per le pensioni è stata di 218,16 miliardi di euro, dei quali 195,4 a carico delle gestioni previdenziali e 23,2 miliardi di quelle assistenziali. Nel corso del 2023, per indicizzare le pensioni all’inflazione dell’8%, sarà necessario un esborso di ulteriori 18 miliardi di euro, portando così il totale delle pensioni a 236,16 miliardi.

Le alternative a cui sta pensando l’Inps, come detto, sono tre.

Il calcolo contributivo

Sono tre le vie da seguire e tutte nel sistema misto, formato dal metodo retributivo e da quello contributivo, che si applica a chi ha iniziato a lavorare prima del 1996.

C’è la possibilità di varare un sistema basato sul calcolo contributivo applicabile ai lavoratori che hanno compiuto i 64 anni di età e hanno almeno 35 anni di contributi a patto che abbiano maturato un diritto alla pensione almeno pari a 2,2 volte l’assegno sociale pari a 468,11 euro ovvero, in totale almeno 1.029 euro.

Per chi lavora dal 1996 e quindi rientra nel regime contributivo puro (64 anni di età e 20 anni di contributi) viene corretto il requisito di maturazione da 2,8 a 2,2 volte l’assegno sociale, con l’intento di soddisfare la più ampia platea di beneficiari tenendo particolare conto delle lavoratrici e degli autonomi, ossia le categorie con i redditi più bassi.

Opzione che costerebbe allo Stato 3,365 miliardi di euro fino al 2030.

Il calcolo con penalizzazione

Prevede il pensionamento dei lavoratori assoggettati al sistema misto a 64 anni di età con almeno 35 anni di contribuzione, a patto di avere maturato diritti pensionistici pari ad almeno 2,2 volte l’assegno sociale (ovvero 1.029 euro al mese). Il ricalcolo prevede una penalizzazione del 3% della quota retributiva per ogni anno di anticipo rispetto all’età di vecchiaia (67 anni). Anche in questo caso per chi lavora dal 1996 la soglia del diritto maturato scende da 2,8 a 2,2 volte l’assegno sociale per permettere a un numero maggiore di persone di godere della pensione a partire dal 64esimo anno di età e con almeno 20 anni di contributi.

In questo caso il costo per lo Stato sarebbe di 4,893 miliardi di euro fino al 2030.

Anticipo della quota contributiva della pensione

La terza proposta riguarda l’anticipo pensionistico relativo soltanto alla quota contributiva per chi ha 63 anni di età e 20 di contribuzione, a patto che la quota sia superiore a 1,2 volte l’assegno sociale (562 euro). Al compimento del 67esimo anno di età il lavoratore si vedrà riconosciuta anche la quota retributiva. Per i primi quattro anni il contribuente avrebbe accesso a un importo in alcuni casi sensibilmente al ribasso rispetto al totale dell’assegno pensionistico mensile.

Soluzione questa che costerebbe allo Stato 2,5 miliardi di euro entro il 2030.

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