Caos in Papua Nuova Guinea, contesa tra Usa e Cina

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Dopo le violenze elettorali e tribali, l’ insicurezza è alle stelle nelle province delle Highlands in Papua Nuova Guinea, uno degli Stati più poveri del mondo , al centro del Pacifico teatro di competizione geopolitica e militare tra Usa e Cina.

A condannare aggressioni, stupri, uccisioni, distruzione di proprietà e infrastrutture su vasta scala è stata l’Onu, mentre bilanci ufficiali hanno confermato una cinquantina di vittime, di cui 18 in un efferato attacco a colpi di machete, perpetrato vicino alla città mineraria di Porgera, nella provincia di Enga, e oltre 3 mila sfollati.

La recente escalation di violenza è direttamente ricollegabile alle elezioni parlamentari che si sono tenute nell’arco di 21 giorni, dal 2 al 22 luglio.

Un processo lungo e farraginoso segnato in alcune province da accuse di manomissione di schede elettorali e furto di urne, che hanno provocato frustrazione nell’opinione pubblica e aumento delle tensioni.

Anche la scarsa organizzazione e pianificazione elettorale da parte dello Stato centrale e della provincia delle Highlands hanno contribuito ad alimentare l’instabilità nell’altopiano centrale di Papua Nuova Guinea, ma uno dei fattori principali è stato senz’altro la storica rivalità tra clan.

In questo vero e proprio scrigno di biodiversità e di risorse naturali e minerarie vivono numerose tribù e clan che conservano le proprie lingue autoctone e costumi ancestrali, impaurite a causa della violenza diffusa nelle loro comunità. 

Le Nazioni Unite hanno formalmente chiesto una rapida indagine sui presunti crimini e il perseguimento dei presunti autori e istigatori.

“Questa violenza ha già costretto circa 3 mila persone, solo in alcune parti dell’Enga, ad abbandonare le proprie case e ha causato danni a scuole e strutture mediche. Anche le attività commerciali ei mercati hanno temporaneamente chiuso.

Le strade sono state deliberatamente tagliate a causa dello scavo di trincee e della distruzione di ponti, con forniture in interruzioni nella consegna di beni servizi e queste comunità, che ora stanno vivendo una sostanza di cibo, carburante, medicinali e altre essenziali” ha riferito l’Onu.

Questa regione ricoperta dalla giungla è spesso teatro di violenti scontri fra tribù che combattono per la terra o le risorse naturali, che a volte sfociano in omicidi di massa.

Per questo motivo diverse fonti, tra cui il presidente del Consiglio locale e il capo della polizia di Enga, hanno affermato che più che per le elezioni legislative, le violenze sono da ricollegare alle storiche rivalità tra tribù.

Tuttavia Maholopa Laveil, docente di economia presso l’Università della Papua Nuova Guinea, ha ricordato che le elezioni del 2017 sono state ancora più violente, con un bilancio di circa 200 morti, contro 50 all’ultima tornata.

Un’escalation che ha spinto il primo ministro James Marape, capo del partito Pangu, a dichiarare lo stato di emergenza. Suo diretto rivale non è stato altro che il predecessore, Peter O’Neill, del Partito del congresso nazionale popolare – al potere dal 2011 al 2019 – costretto alle dimissioni per le proteste di strada contro la corruzione endemica e il mancato sviluppo del Paese nonostante le sterminate riserve di gas, petrolio, oro e rame oltre alla produzione forestale e agricola.

I risultati saranno diffusi durante il mese di agosto e, secondo gli analisti, al vincitore toccherà formare un governo di coalizione mentre nel Parlamento da 118 seggi dovrebbero sedere alcune deputate donne, assenti dal 2017, in quanto su 3.500 candidati, 142 sono di sesso femminile. Gli osservatori indipendenti hanno invece temuto che il caos potesse far deragliare l’intero processo democratico.

A vigilare in modo particolare sul cruciale appuntamento con le urne è stata l’Australia, ex potenza coloniale dalla quale la Papua Nuova Guinea è indipendente dal 1975.

In questo momento di rivalità diretta nella sua storica zona di influenza – il Pacifico – tra Pechino e Washington, suo stretto alleato, Canberra segue ancor più da vicino quanto sta succedendo nella sua ex colonia.

A maggior ragione da quando le Isole Salomone hanno firmato un accordo con la Cina – il cui contenuto preciso è riservato – che potrebbe prevedere l’apertura di una base navale cinese nell’arcipelago. Si tratterebbe della seconda base militare cinese all’estero, dopo quella costruita nel 2017 a Gibuti, nel Corno d’Africa, in un’area dove l’influenza cinese negli ultimi anni è cresciuta considerevolmente.

Nei mesi scorsi Canberra ha abbandonato la tradizionale politica estera di buone relazioni con Pechino per entrare esplicitamente nell’alleanza costituita da Washington nel Pacifico in funzione esplicitamente anti-cinese.

Nel settembre del 2021 gli Stati Uniti, l’Australia e la Gran Bretagna hanno annunciato la firma di un accordo militare e di sicurezza basato nella regione indo-pacifica, denominato Aukus. Canberra è stata premiata da Washington con la vendita di alcuni sottomarini nucleari – che inizialmente dovevano essere acquistati dalla Francia – da posizionare in una nuova base navale di cui l’Australia ha annunciato la realizzazione sulla costa orientale del Paese.

Inoltre l’Australia è entrata nel Quad (Dialogo quadrilaterale di sicurezza), un’alleanza strategica per ora informale guidata da Washington che comprende anche Giappone e India. Questi ultimi sviluppi hanno portato la Cina a denunciare la “mentalità da guerra fredda” degli Usa e a bollare tutte queste alleanze di “Nato del Pacifico”.

Pechino ha apertamente replicato che adotterà contromisure, quali l’estensione della sua presenza all’interno della stessa area considerata da Canberra e Washington come il proprio “cortile di casa”.

Una cosa che del resto ha già cominciato a fare negli ultimi anni, fornendo assistenza sanitaria e protezione civile ad alcuni Paesi del Pacifico meridionale alle prese con disastri naturali, crisi economiche e sanitarie quali la pandemia di Covid.

La Repubblica Popolare è già riuscita a stringere velocemente relazioni con le Isole Figi, dove vivono più di 10 mila cinesi, e il cui premier, Frank Bainimarama – un ex militare al potere tramite un colpo di stato – appare molto sensibile alle richieste di Pechino.

A rafforzare i rapporti con la Cina è stato anche l’arcipelago delle Kiribati che dietro sue pressioni ha interrotto le relazioni con Taiwan. Collocandosi geograficamente al centro di quest’area – proprio di fronte alle Salomone – anche la Papua Nuova Guinea è di fatto già finita sotto il ‘tiro’ incrociato di Washington e Pechino.

Usa e Australia sono in allerta per il coinvolgimento della Papua Nuova Guinea nella Belt and Road Initiative cinese e per il finanziamento cinese ad alcuni progetti infrastrutturali locali, richiesto a suo tempo dal premier O’Neill. Nel 2019 quest’ultimo ha evitato un voto di sfiducia rassegnando le dimissioni e da allora è stato accusato di corruzione.

Il suo successore ancora in carica, Marape, ha invece cercato di ridurre la dipendenza dagli aiuti australiani.

In Papua Nuova Guinea, Canberra difende sia gli interessi delle sue multinazionali minerarie che quelli geostrategici di tutta l’area Asia-Pacifico.

Sulla scacchiera anche Washington ha fatto avanzare le sue pedine, intrattenendo col precedente governo O’Neill forti legami in materia di sicurezza, incluso tra il 2017 e il 2019 lo svolgimento di esercitazioni militari congiunte.

In questo settore al centro delle mire Usa c’è la volontà di incrementare ulteriormente la cooperazione, espandendo una base navale presente in loco già dal 2018.

Quando la Cina e le Salomone hanno firmato il patto di sicurezza, la Casa Bianca non ha esitato a mettere in guardia il governo della Papua Nuova Guinea dal muoversi nella stessa direzione.

Una mossa tattica che ha rappresentato qualsiasi l’ennesima riprova della volontà di Washington di bloccare la presenza o l’espansione cinese nel Pacifico.

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