
Snob – Detestano il controllo. Odiano le perdite di tempo. Sono in cerca di emozioni autentiche. Crescono i cultori di un’esistenza senza social e collegamenti. Fuori da Instagram, Facebook e TikTok. Perché il vero lusso oggi è anti-social
Invidiabili, inimitabili. In un mondo di spioni, o di gente perennemente online, gli sconnessi sono i nostri nuovi snob. Forse perché snobbare il social è anzitutto costume da ricchi o da hollywoodiani. A parte i tycoon del tech, i Musk o gli Zuckerberg – twittatori e instagrammiani per lavoro – nel mondo del lusso il social non usa.
Bernard Arnault (presidente e AD di LVMH, la multinazionale proprietaria di Louis Vuitton, Bulgari, Fendi, Céline, Loro Piana e altri settanta marchi d’alta moda, orologi, vini, editoria), il re dei miliardi che quest’anno ha superato il ceo di Tesla, odia persino mandare mail. Così Sandra Bullock, che detesta la vita online dove «tutti giocano a essere migliori». L’attrice vede Hollywood in ogni account: divismo al ribasso con tramonti e sciabolate di champagne. Sarà che Bullock s’è persa per strada i ballerini di Tik-Tok-Tak (non sa che più di riccanza e culo alto adesso è gara allo sbraco). Comunque, il punto è un altro. Perché la posa sprezzante dell’attrice a lungo più pagata al mondo (Forbes 2010, 2011, 2013) – come la ritrosia di Arnault – spiega l’esatta filosofia degli sconnessi. Ovvero di tutti gli anti-social, certo non ricchi e non hollywoodiani, che dicono addio alla vita online.
Senza social Parigi è più bella»
Se fra gli adolescenti cresce l’ossessione per TikTok, con Instagram e Whatsapp che rimangono stabili – uso pressoché universale: 90 per cento l’uno, 98 l’altro (secondo il Laboratorio Adolescenza dell’Istituto di ricerca Iard su un campione di oltre 10.500 studenti italiani tra i 13 e i 19; anno 2021) – e se il Web 2.0 è ancora forte, chi si sottrae non posta Vuitton ma nell’anima è Arnault.
«Non mi interessa degli altri». È questa la frase più ricorrente nel nostro piccolo viaggio offline. In che senso non t’interessa? «Non voglio sapere cosa fanno gli altri, dove sono», dice una dottoranda di letteratura francese che solo qualche anno fa compulsava Instagram postando quasi una foto al giorno (i maligni sospettavano persino acquistasse follower). Il suo feed era bello, radioso. Di pitagoriche simmetrie: architetture urbane e campi di lavanda nelle trasferte-studio in Provenza. Clara, che adesso fa ricerca a Parigi, di vita da mostrare ne avrebbe eccome vista la vocazione oleografica del social con Torri Eiffel, la croque-madame, Amélie e qualsivoglia tic produttore di like. Ma lei non lo fa. Dice che Instagram occupa «tempo senza guadagno» e deconcentra la ricerca. Prima andava nei parchi quasi solo per scattare foto ai libri (che avessero un buono sfondo). Si sentiva artefice di un’auto-narrazione, racconta. Ma l’auto-narrazione è fondamentale per vivere, esiste anche senza social. «Sì, e infatti vivere Parigi senza social è difficile. Ma più bello».
In effetti – narrazione per narrazione – “Parigi senza social” sembra un romanzo. Lontani dalla Torre, già spira vento di Ménilmontant. Di quartieri multietnico-bohémien – quartieri che lei frequenta – dove il mondo è una musica indie, dove è tutto «un po’ hipster», e dove non avere social è perfetto per raccontarsi storie alternative. Con un io narrante snob che certo invidiamo – noi vincolati all’Instagram per lavoro (ché se no ci sfugge il mondo).
In un articolo di qualche anno fa, il Guardian parlava dell’allora 25 per cento di millennials sconnessi: nota comune agli intervistati americani era la consapevolezza di poter fare a meno dei social per una compiaciuta predilezione di libri e giornali. Oggetti di culto come il vinile: must-have per chi ami distinguersi.
Non controllare, non essere controllati
Dopo l’auto-narrazione il neosnobismo pone poi il tema del controllo, che da Gwyneth Paltrow alle nostre amiche è molto sentito. Paltrow, ospite lo scorso gennaio al Late Late Show, rimpiangeva gli anni Novanta. Ovvero gli anni in cui una «New York senza social» poteva «parlare di cocaina, andare nei bar e ballare sui tavoli senza smartphone (…) uscire e andare a casa con qualche sconosciuto senza che nessuno lo sapesse». Per inciso: caposaldo dello snobismo è una melliflua indulgenza in tema di vizi e aberrazioni (Camilla Cederna, La snob). In questo senso, gli anni Novanta furono il canto del cigno dell’umanità. Soprattutto se pensiamo che oggi, sempre sui social, le rockstar non bevono e non si drogano: niente vizi e aberrazioni. Piuttosto sfoggiano vite da statali, amori da contabili.
Per non suscitare invidia
Il capo dei Maneskin, per dire, rassicura che la droga non sa dov’è di casa. Per non parlare dell’ormai ex Donna Maneskin, di cui – sempre a mezzo social – teniamo il conto delle mestruazioni: Giorgia Soleri, in alternanza alle sue poesie, fa cronaca dei crampi causati dall’endometriosi. Ebbene, gli sconnessi sembra odino le star che fanno i contabili e i contabili che si atteggiano a star. E più in generale, odiano il dover rendere conto di tutto per un senso etico di condivisione del proprio lifestyle che in un lungo piano sequenza dalle vacanze transoceaniche finisce dritto nelle mutande. Scelgono insomma di non salire su quel che considerano un mezzo pubblico della fama. Una specie di torpedone per il successo pieno zeppo di disperati dove – spiega la dottoranda della Sorbona – «non si vive, ma si è vissuti». Da che cosa si è vissuti? «Dal desiderio di mostrare, dall’ansia di controllare… Come quando si controlla il profilo di Chiara Ferragni».
Ed ecco il bersaglio: la ragazza di Cremona (con le altre Chiare: Biasi, Nasti ecc.), che con le sue borsette è l’anti-snob del Bel Paese, la provinciale elevata al mondo. Ferragni – genio di suo – intanto ha spiazzato Andy Warhol: perché sul social, meglio che in tivù, chiunque può esser famoso per più di un quarto d’ora. Il suo successo ha dunque provato che il social è anti-snob per natura. Perché dà l’illusione a tutti di essere socialite. Sia pure dal proprio sofà. Ma in questa sospensione d’incredulità collettiva, per cui ci si sente famosi oltre i mille follower, c’è chi non la beve. E alle influencer preferisce la trasparenza.
«Perché dovrei guardare il profilo della Ferragni?», si domanda un’altra donna aziendalista che prima ha cancellato dai social ogni foto in bikini e poi ha direttamente estinto il profilo. «Nessuno dei suoi follower potrà mai permettersi quell’armadio o quelle vacanze. E forse neanche quel fisico. Il social serve solo a suscitare invidia. Io non voglio farne parte». Ed ecco venir fuori lo stigma giusto e inclemente della signorina snob. Con la superiorità antropologica nei confronti di chi s’imbambola per pupi e borsette.
L’imbambolato per le vite da sogno resterà sempre un povero diavolo, vuoi dire questo? «È una forma di masochismo, sono vite fuori dalla nostra portata. Pensa poi a quelle che controllano di continuo i like di chi le corteggia o di chi le ha mollate». E qui s’apre un tema. Perché gli sconnessi con cui parliamo non sono vanaprastha indù che si ritirano nella foresta. Né mistici o padri del deserto. Sono appunto signorine snob in mezzo a noi. Che come noi amano, mangiano, bevono. Si accoppiano senza Tinder e senza l’ansia di sapere lui dov’è, cosa fa. Coltivano distacco dal giudizio altrui. Godono come tutti o come l’Epicuro del “vivi nascosto” che è la radice di tutti carismi e sintomatici misteri. E, a proposito di snob, riadattano il canone Gianni Agnelli. Che ai tempi del primo cellulare diede il suo in consegna all’autista. O di Umberto Eco, che lo affidò all’assistente secondo il principio per cui in amore, come nel lavoro e nella vita, vince chi fugge (almeno per un po’).
Gli sconnessi oggi cambiano i codici allo snobismo. Tradizionalmente esibizionista, centrato sull’abito e sul pensiero altrui, oggi lo snob ha capito che in un mondo in mutande bisogna mettersi gli occhiali da sole. Per potersi coprire, per poter sparire. Per avere più carisma, appunto, e sintomatico mistero.