
Come evolverà la diatriba tra Russia e Ucraina o, meglio, tra Russia e quel che essa chiama l’Occidente collettivo, non lo sappiamo. O meglio, io non lo so. Né riesco ad immaginare cosa verrà fuori da dialoghi – che, sembra, prima o poi ci saranno – tra Vladimir Putin e il neo-presidente americano Donald Trump. Per quel che vale – e se mi è concesso – vorrei esprimere il mio auspicio, che naturalmente cercherò di motivare.
Mi rendo conto che non vale molto essendo sulla questione un amatore, con punta speranza di competere coi mammasantissima della geopolitica che per tre anni hanno sdottorato di “giustizia”, “democrazia” e altri paroloni, su ogni mezzo di comunicazione. Anche se – non riesco a frenarmi dall’osservare –va detto che costoro sono gli stessi che han sostenuto la guerra ad oltranza contro un “dittatore” che fin dai primi giorni essi assicuravano essere malato, o di mente o di corpo, a seconda se il giorno della settimana era pari o dispari. E taccio dei massimi vertici della politica, come l’ineffabile Ursula von der Leyen che, in uno storico discorso al Parlamento europeo del settembre 2022, dichiarava che la Russia era in condizioni tali da dover reperire da lavatrici e frigoriferi i pezzi per fabbricare i propri missili, e forse anche i pezzi di ricambio dei propri carrarmati. Se fossero lavatrici e frigoriferi rottamati, oppure se Putin avesse lanciato una campagna tipo non oro ma “frigoriferi e lavatrici alla patria per la grandezza della Russia!” non è dato sapere. Ah, Ursula, Ursula… se non ci fossi ti avremmo dovuto inventare, ché nessuna come te riesce a trasformare la tragedia in barzelletta.
Comunque sia, sommersa dalla reboante voce dei professionisti – che, ad averla ascoltata come è stato fatto fin ad ora, cioè al traguardo del milione di vittime – la nostra, flebilissima, vagheggiava che da questa parte si issasse la bandiera bianca. Era il 27 febbraio 2022 quando auspicavamo «che innanzitutto la Nato dichiari di rinunciare una volta per tutte a invitare l’Ucraina a farvi parte»; e, pochi giorni dopo, il 2 marzo, osservavamo che «ogni pace ha un suo prezzo; in questo caso, si verifichi il sentimento separatista dal governo centrale delle regioni del sud-est dell’Ucraina». Nei mesi successivi siamo stati come un disco rotto, fino al 16 giugno dello scorso anno quando, solitari, auspicavamo che si accettasse la proposta di pace che Vladimir Putin aveva offerto due giorni prima. Ho detto “solitari” per falsa modestia; in realtà abbiamo avuto, per tutto il tempo, un importante alleato: papa Francesco. Con una piccola differenza: il papa chiedeva il silenzio delle armi, ma non si spingeva, come noi, fino a chiedere la resa.
Ecco, in un impeto di mania di grandezza, azzardo a dire che, fossi io Trump, mi metterei d’accordo con Putin dicendomi disposto a dichiarare la sconfitta della Nato. Non accadrà mai perché sarebbe disonorevole per Trump e per l’America? Direi tutto il contrario. Perché – direi – che questa è la sconfitta, innanzitutto, del mio predecessore. Direi che è stato Joe Biden a trascinare il Paese e l’Occidente intero in questa imbarazzante situazione. Un atto premeditato fin dal 1997, quando alla Conferenza della Nato americana dall’inquietante titolo “Espansione della Nato”, proprio Biden vagheggiava di indurre nella Russia «una reazione ostile facendo aderire alla Nato gli Stati del Baltico».
Direi che la sconfitta non sarebbe disonorevole. Al contrario: con essa si interrompe l’assurdo spargimento di sangue di questi tre anni e si scongiura l’evoluzione del conflitto ad estremi innominabili. Direi che la scelta è in linea con la mia politica di “America first”. E l’America non ha alcun vero interesse in Ucraina. E non ha neanche particolare interesse a combattere la Russia: il mondo è sufficientemente grande per una convivenza pacifica tra tutti. Direi che, nel pur lodevole compito di attirare l’Ucraina nella parte del mondo libero e sottrarla all’influenza di un Paese refrattario allo stile di vita democratico dell’Occidente, il mio predecessore ha commesso l’errore di accompagnarsi con soggetti ucraini che sono ancora più anti-democratici.
Ricorderei che il sistema democratico occidentale prevede la coesistenza pacifica senza distinzione di etnie, lingue o religioni. Ricorderei che nella Costituzione degli Stati Uniti d’America non esiste una “lingua di Stato”; che in Canada, la provincia del Quebec è francofona, e il francese è riconosciuto lingua ufficiale dal governo centrale. Esattamente il contrario della predisposizione assunta dall’Ucraina, che nel tentativo di affermare l’identità ucraina, con specifici atti legislativi ha marginalizzato i propri concittadini russofoni.
In definitiva, ribadirei, anche in sede di trattative con Putin, la dichiarazione di Trump del 20 gennaio scorso: «Se fossi stato presidente, questa guerra non sarebbe mai iniziata». E – aggiungerei – non sarebbe mai iniziata perchénon avevamo alcuna ragione per iniziarla. A nome di tutto l’Occidente chiederei scusa agli ucraini: chi mi ha preceduto voleva fare il vostro bene, ma s’è accompagnato male. Le lancette degli orologi, però, non possono portarsi indietro: dopo tre anni di guerra, le conquiste guadagnate e le sconfitte subite rimangono, come in ogni guerra, tali. Per il futuro – direi, se fossi Trump – la parola d’ordine sia “pace ad ogni costo”.
Franco Battaglia, 7 febbraio 2025